Viviamo in una gabbia senza sbarre, così ampia da farci credere liberi e così confortevole da farci dimenticare che potremmo uscirne. Camminiamo sicuri lungo sentieri già tracciati, convinti di scegliere la direzione, senza chiederci chi abbia deciso cosa fosse “giusto” desiderare, temere o inseguire. Un tempo le catene erano ferri, oggi sono contratti, debiti, algoritmi e schermi. Ci alziamo all’alba per inseguire stipendi che bastano appena a sopravvivere e lo chiamiamo “lavoro dignitoso”, compiliamo moduli e ci adattiamo a regole scritte da altri, in nome di un ordine che raramente serve davvero l’essere umano. La nostra libertà si misura nello spazio di scelta che ci viene concesso dentro minuscoli recinti già costruiti.
Eppure, le catene più resistenti non sono quelle che brillano alla luce del sole, ma quelle che crescono in noi come radici: paure ereditate, credenze assorbite senza domande, bisogni che non ci appartengono ma che abbiamo imparato a considerare indispensabili. Cerchiamo approvazione, temiamo il giudizio, lottiamo per ruoli e titoli che ci legano più di quanto ci liberino. Difendiamo ciò che ci imprigiona perché confondiamo il noto con il sicuro. Siamo sempre a un passo dall’accorgerci della nostra schiavitù: un dubbio improvviso, una crepa nell’abitudine, una sensazione che qualcosa non torni. Ma quasi sempre, invece di seguire quella fessura verso la verità, ci raccontiamo che il comfort che abbiamo sia una conquista. Così ci adagiamo, ignorando che proprio questa illusione di benessere stringe le nostre catene, mentre la nostra condizione peggiora lentamente e inesorabilmente.
Il vero carceriere vive dentro di noi: è la mente che, non osservata, diventa un meccanismo che giustifica la gabbia, la decora e la custodisce, raccontandoci che uscire sarebbe troppo rischioso, troppo difficile, troppo folle. Così restiamo dove siamo, rinchiusi in una comfort zone che somiglia a una cella imbellettata. È qui che nasce spesso quell’angoscia sottile, quell’ansia sorda e inspiegabile che la società etichetta come disturbo e da cui ci invita a guarire rapidamente, e talvolta, per cercare un sollievo effimero da quell’angoscia, si finisce per cedere alle sostanze o ad altre dipendenze, illudendosi di dimenticare anche solo per un breve lasso di tempo quello che cominciamo ad intuire. Ma in realtà, quelle crepe emotive sono tracce preziose: segnali che ci indicano che qualcosa dentro di noi si ribella, che non tutto è perduto, che forse abbiamo cominciato a intravedere la verità.
Liberarsi non significa spezzare tutte le catene in un gesto eroico, ma inizialmente imparare a riconoscerle. Significa fermarsi, ascoltare e osservare senza giudizio i meccanismi che ci governano, scegliere di non nutrire ogni pensiero che nasce e di non credere a ogni paura che si affaccia. Scegliere sempre la realtà, anche se triste e difficile da accettare, rispetto ad una menzogna consolatoria. Ogni cammino di consapevolezza autentica, passo dopo passo, conduce inevitabilmente a un punto in cui le catene interiori si sciolgono. In quel momento, l’agire non nasce più dalla costrizione o dall’inerzia, ma da una libertà interiore che è frutto di comprensione profonda.
Il tempo non gioca a nostro favore. Ogni giorno che restiamo immobili, la gabbia si restringe, le maglie si infittiscono, le vie d’uscita si riducono. È un processo silenzioso, quasi impercettibile, e proprio per questo letale: quando ci accorgeremo davvero di essere prigionieri, potremmo scoprire che le porte sono state saldate. La consapevolezza va afferrata ora, quando ancora possiamo muoverci, quando ancora la catena è abbastanza lenta da essere sciolta e riusciamo miracolosamente a sentire una spinta all'azione, non è da tutti, anzi, la maggior parte degli individui non sapranno mai cosa significa guardarsi intorno e sentirsi stringere una morsa alla gola. Cominciare a reagire può significare scegliere di dire “no” a ciò che ci consuma senza nutrirci, interrompere relazioni tossiche che ci imprigionano, e creare spazio per la nostra autenticità. È abbandonare l’abitudine di reagire d’impulso, per imparare a fermarsi e osservare i propri pensieri e emozioni senza esserne travolti, lasciar così perdere le situazioni che in realtà non ci riguardano. Liberarsi è anche riconoscere i propri limiti senza vergogna, chiedere aiuto quando serve, e coltivare abitudini che nutrono corpo, mente e spirito: una passeggiata da soli, la meditazione, un momento di silenzio quotidiano. Sono azioni apparentemente semplici, ma che disegnano un nuovo orizzonte dentro di noi, spezzando le catene invisibili una alla volta, fino a rendere possibile un cammino di libertà duratura.
Le chiavi non sono mai state fuori, sono sempre state nelle nostre mani; non le vediamo perché continuiamo a stringere la catena. Basta aprire la presa, un istante di lucidità, e scopriremo che la gabbia non era neanche chiusa, lo era solo nei limiti dell'illusione in cui avevamo deciso di muoverci perché essere limitati significa anche essere limitati nella responsabilità della propria esistenza, quasi pesasse, come un macigno, farsene carico. Ma senza compiere questo vero atto di consapevolezza, senza rendersi conto che siamo noi a descrivere attimo per attimo la nostra esistenza affinché quello che pensiamo si realizzi, e lo fa, perdiamo la possibilità che ci è stata data, o che abbiamo scelto, o semplicemente ci è capitata per caso, di fare della nostra esistenza qualcosa di vicino alla parte più profonda di noi.